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Dario Hubner si racconta a YSport: “Il calcio ieri e oggi. Dovevo nascere vent’anni dopo”

Ci sono i giocatori che vengono ricordati per la fantasia, il talento, giocate sopraffine e prestazioni da super atleti. E poi ci sono quelli che rimangono per sempre nel cuore dei tifosi che li hanno ammirati con la maglia della propria squadra del cuore. Quelli che sudano la maglia, che partiti dal basso hanno sputato sangue sui campi in terra battuta per arrivare in alto. Quelli nati dal calcio di provincia. Quelli come Dario Hubner.

Più di 300 gol segnati in carriera, dai dilettanti fino alla Serie A. Unico calciatore, insieme ad Igor Protti, ad aver vinto la classifica cannonieri di Serie A, B e C. Uno arrivato in Serie A soltanto a 30 anni, dopo anni e anni di gavetta e di carriera in categorie minori, capace di far male all’Inter a San Siro all’esordio in massima serie. “Tatanka” e “Bisonte” i suoi soprannomi, quando ai tempi del Fano di Francesco Guidolin iniziò a farsi conoscere per le sue doti realizzative.

La redazione di YSport lo ha intervistato, e Dario ci ha parlato della sua storia, raccontando qualche aneddoto della sua lunga carriera, confrontando il calcio di oggi con quello di ieri.

Di seguito l’intervista realizzata dal direttore Aldo Pio Feoli:

I tuoi inizi. Sei considerato il più forte bomber di provincia della storia del calcio italiano. Ma la tua storia nasconde alcuni particolari, cose che non si vedono tutti i giorni per i calciatori di oggi. Il tuo sogno non era certo quelli di fare il giocatore, ma andavi a lavorare la mattina già da ragazzo per portare il pane a casa…

“La mia è stata una carriera diversa da tutti gli altri calciatori. Ci sono i giocatori che iniziano dalle squadre giovanili, fanno dieci anni nei settori giovanili delle società e poi arrivano in prima squadra. Io a vent’anni giocavo in Prima Categoria, tutta la trafila delle giovanili non l’ho fatta, giocavo per divertimento. A vent’anni ormai era impensabile poter pensare di arrivare in Serie A. Poi è successo l’insospettabile. La Serie C, la Serie B e la Serie A. Sono migliorato e sono riuscito a dimostrare prima a me stesso e poi a tutti gli altri cosa potevo fare. Si, è stata una carriera molto particolare”.

Una carriera che oggi sarebbe pura utopia per un giovane di provincia, visti i cambiamenti nel mondo del calcio?

“Prima era tutto diverso. Al giorno d’oggi tra osservatori, procuratori, mediatori e quant’altro il ragazzo bravo viene subito notato. Da un lato è positivo, ma guardando l’altra faccia della medaglia, le carriere diventano troppo brevi e veloci. Un giocatore che si pensa sia bravo già a quindici anni magari a vent’anni è già finito nelle categorie inferiori. I calciatori devono crescere di anno in anno, nessuno è già maturo. Adesso anche in tenera età vengono considerati top. Il discorso è semplice, anche per il calcio di provincia: chi prima avrebbe dovuto fare gavetta per almeno una decina d’anni prima di arrivare in Serie A, oggi può ritrovarsi a fare il salto di categoria in due, anche in un anno. A meno che tu non sia un predestinato o un fenomeno, ci sono sempre le eccezioni, non si può pensare di passare dalla C alla A in poco tempo. È questione di mentalità, di struttura fisica e di tattica. Quante volte abbiamo parlato bene di un giovane, considerandolo già un campione, e poi se ne sono perse le tracce. In realtà campione non era. Considerato così perché spinto, perché il calciomercato si è andato sempre più ad evolvere”.

È un discorso che può essere collegato all’attuale crisi del calcio italiano, a livello di Nazionale?

“Bisogna guadare un po’ a monte. Oggi come oggi sicuramente il calcio è cambiato, già dai settori giovanili. Una volta le Primavere delle grandi e piccole squadre erano composte soltanto da italiani. Andiamo a leggere le rose delle Primavere di oggi, sono piene di stranieri. Non che sia un problema insormontabile, ma fa specie che una volta un commissario tecnico poteva scegliere tra quindici centrali difensivi di livello e oggi ce ne siano soltanto quattro-cinque all’altezza. Così per tutti i ruoli”.

Basti pensare che uno come Dario Hubner non ha mai esordito in Nazionale.

“C’erano calciatori con evidenti capacità tecniche migliori delle mie, c’erano i bomber veri, da Christian Vieri a Pippo Inzaghi, fino a Vincenzo Montella, anche lui con poche presenze in Nazionale. Tutti calciatori cresciuti e maturati nei vivai italiani. Erano anni con una concorrenza abbondante per ogni ruolo. Arrivare in maglia azzurra significava essere tra i più forti del mondo. Oggi guardiamo gli attaccanti, non sappiamo chi potrebbe essere la punta dell’Italia con il carisma e le capacità di uno qualsiasi del tempo…”

Il mancato arrivo in Nazionale è uno dei rimpianti della tua carriera?

“Beh, in realtà ho un unico rimpianto. Magari dovevo nascere vent’anni dopo…”

La tua stagione in coppia con Roberto Baggio a Brescia è una delle più belle della tua carriera. Raccontaci un aneddoto di quell’anno sul Divin Codino.

“Giocare insieme a Roberto è stato un piacere, in campo era una delizia. Ho avuto la fortuna di giocare col Divin Codino, ma la sfortuna di averlo incontrato in tarda età, non era piu quello di qualche anno prima, quando faceva cose extraumane. Nonostante l’età di entrambi, però, siamo arrivati settimi, il miglior piazzamento del Brescia in Serie A. Giocare con Baggio voleva dire che la partita non era mai finita. Se perdevi per un gol, fino a che l’arbitro non fischiava, lui con una punizione al 95′ o con una giocata individuale poteva portarti alla vittoria”.

Che ricordi hai della tua migliore stagione dal punto di vista realizzativo, a Piacenza? 24 gol, capocannoniere della A insieme a un certo David Trezeguet..

“Ricordo una squadra messa in campo per farmi arrivare quanti più palloni possibili da mandare in porta. Mister Novellino metteva tutti in campo per mandarmi in gol, la squadra girava quasi attorno a me. C’erano ottimi calciatori, quali Poggi e Di Francesco, era una squadra costruita apposta per le mie qualità offensive di attacco alla profondità. Una squadra che si difendeva bene e ripartiva al meglio. Devo solo ringraziare il mister per quell’annata”.

Com’era il rapporto con Novellino? Allenatore, dal punto di vista umano, con cui ti sei trovato bene?

“In questi anni è migliorato ancora di più. Con lui mi trovai benissimo perché faceva esprimere un bel calcio, eravamo una squadra con discrete qualità tecniche, ma lui ci diede un’impostazione chiara e precisa fin dall’inizio. Adesso ad Avellino sta facendo bene, ma c’è da dire che un allenatore fa meglio e diventa bravo anche a seconda dei calciatori che ha a disposizione. Dal punto di vista umano è sempre stato un allenatore diretto e genuino, per questo spesso c’erano battibecchi tra noi due. Anch’io ero così. Mi ricordo che puntualmente in settimana, quando c’era amichevole con la Primavera, mi diceva che non mi impegnavo abbastanza, sbagliavo qualche stop e mi mandava sotto la doccia. A lui piaceva stuzzicare i giocatori. Io mi arrabbiavo e gli rispondevo anche in toni accesi, ma il giorno dopo ero di nuovo sul campo d’allenamento pronto a dare tutto per la partita successiva”.

Chi è Dario Hubner oggi, dopo il ritiro dal calcio giocato?

“Sono la stessa persona che ero a vent’anni, quando giocavo in Prima Categoria. Non mi sono mai sentito una prima donna, una persona importante. Ho sempre vissuto in maniera modesta e tranquilla, vivendo il calcio con serenità d’animo. Se resti umile, con la stessa mentalità di quando giochi coi dilettanti, fai strada. Così non solo nel calcio ma nella vita”.

Grazie mille Dario.

“Grazie a te Aldo”.

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